Laboratori (in statu quo ante)
«L’ossatura della Facoltà di Architettura dovrebbe essere costituita da un grande “laboratorio di progettazione” e tutti i corsi dovrebbero essere svolti in funzione e in chiave dell’operazione progettuale»: seppur non con l’incisività sottesa in questo argomentare di Franco Albini, il tentativo di riformulare i corsi di progettazione architettonica – e non solo quelli - è stato il passo più denso di conseguenze compiuto dalle Scuole di Architettura rispetto al loro passato recente. Possiamo tradurre questa riforma come l’intenzione di approssimare quanto possibile l’esperienza in aula a quella di un fare pensante, in atto e spartito, sulla falsariga di ciò che accade – o accaduto in un ampio arco temporale - all’interno dell’atelier di un capo-costruttore (baumeister). Compreso in questa cornice il dispositivo apprestato risulta essere una macchina che miscela, secondo dosi assai difficili da fissare e ripetere passivamente, momento della riflessione e prassi compositiva, lineamenti di poetica e concreto delineare: una commistione che è l’esercizio stesso del laboratorio, il suo ritmo più proprio poiché come descritto con intelligenza viva da Luigi Pareyson «in arte l’insegnamento è decisamente “operativo”: il maestro non “insegna” coll’impartire nozioni teoriche o principi speculativi o leggi generali o spiegazioni scientifiche, ma “facendo fare”, e l’alunno non “impara” nel senso d’accrescere un patrimonio di cultura dottrinale, ma facendo e operando. In arte il magistero non si esercita nell’aula o sulla cattedra, ma nella bottega e nell’officina; la scuola non è accademia, ma tirocinio; e l’alunno non è studente, ma novizio o apprendista». Un’operatività che procede dunque per induzione, sperimentale quanto densa di empiricità, i cui conseguimenti razionali sono al fondo raggiunti alternando la prova (ripetuta) all’errore (inevitabile), al pari di ogni serio cimento.
Del tutto opportuna l’interrogazione riguardo i significati e gli effetti della pandemia SARS-CoV-2 che da più parti ha preso le mosse; forse prematuro giungere a conclusioni o a bilanci, considerato il fatto che questa stagione non sembra aver trovato il suo esito definitivo. Consapevoli dunque della necessaria distanza per una visione più acuta, arrischiamo comunque una prima valutazione riguardo ai mutamenti occorsi nella didattica delle discipline del progetto a causa del forzato confinamento. Rispetto alla breve premessa svolta annotiamo che la prassi laboratoriale è, sic et simpliciter, affatto inattingibile attraverso qualsivoglia mediazione telematica; se per un verso appaiono giustificabili le soluzioni adottate per fronteggiare la brusca interruzione di ogni programma scolastico occorre al contempo riconoscere le singolarità dei diversi cammini formativi, non tutti riducibili nei modi della trasmissione, del flusso ex-cathedra. Innanzitutto ricordiamo gli impedimenti di ordine materiale: impossibilità del/dei sopralluogo/sopralluoghi sul sito su cui si dovranno ipotizzare modificazioni (un passo decisivo nella costruzione di una coscienza del locus inteso nelle sue condizioni fisico-topologiche ancor prima che storico-culturali); inaccessibilità alle risorse delle biblioteche (nella generalità dei casi in ritardo riguardo la digitalizzazione dei loro fondi librari e non) ed ai servizi offerti dall’istituzione per la realizzazione dei modelli di studio e la stampa delle grafie informatiche (vale a dire la rinuncia ad un progressivo e puntuale controllo volumetrico-dimensionale di ciò che si è immaginato e prodotto). Ma, seppur gravi, non sono tali ostacoli di natura strumentale a corrompere l’attività laboratoriale quanto la frammentazione di un’esperire comune in un pulviscolo di interazioni deboli tra individui disseminati ed isolati; e ciò non solo in riferimento alla coppia docente-discente ma anche al libero scambio (intuizioni, informazioni, dubbi, correzioni, scelte, moti d’animo, volizioni, memorie, immagini mentali, gesti…) tra studente e tutors, tra studente e studente: un arresto, una lacerazione ancor più feroce e condizionante di quel campo di mutue e continue relazioni in presenza-potenza che è la bottega-studio nel suo svolgersi e specificarsi. Privata di ogni sporgenza politico-collettiva e ridotta al succedersi di resoconti di singoli è la stessa forma di vita del laboratorio – e latamente dell’intera universitas – che, come è stato osservato, giunge al suo tramonto prefigurando qualcosa di ancora indistinto i cui tratti saremo forse chiamati a riconoscere e decifrare.