Sitting On Spikes
L’architettura ostile nella città pre (e post) Covid
In tempi di emergenza Covid-19, la necessarie misure precauzionali che al momento si basano sulla distanza reciproca, come misura minima di contenimento del virus, rischia di diventare un pretesto per un attacco frontale a quello che fino a poco fa sembrava poter essere l’insindacabile diritto di vivere la città.
Le regole di contenimento del virus possono trovare un alleato formidabile nella tradizionale tutela del decoro. Poco importa se la lotta con il degrado urbano è un grave spreco di energie da parte di chi tenta di combattere i sintomi ignorando le cause, come avvertiva Jane Jacobs già nel 1961.
L’esibizione del controllo, raggiunge i suoi massimi nell’architettura ostile, disciplina parassita che produce spazi e oggetti basati sul principio del “non permettere”, oggetti e progetti basati su quello che non sono e non fanno. Lo spazio costruito diventa il mezzo per attuare la distinzione tra cosa si può fare e cosa non si può fare, tra chi può stare e chi non può stare.
Si allontanano così gruppi considerati inappropriati, spostandoli altrove, marginalizzando comunità e frammentando le città. L’esclusione selettiva, obbiettivo finale dell’architettura ostile, similmente agli effetti della privatizzazione degli spazi pubblici, da luogo a nuove differenze.