La fotografia che ho scelto come rappresentativa della mia riflessione è il Barrio Galán, in Manizales (Colombia). Un cosiddetto barrio de invasión, una quartiere costruito illegalmente da coloro che scapparono dalla guerriglia delle FARC e del narcotraffico, nella più lunga guerra civile dell’umanità, quasi 60 anni di terrore e violenza. Il quartiere è costruito con risorse e tecniche costruttive locali, con culmi di bambù e terra cotta al sole (bahareque) ed è considerato fra i più pericolosi di tutta la Colombia.

In Colombia i desplazados sono il 10% della popolazione totale (6 milioni di esseri umani). Io lo conosco bene il Barrio Galán: l’ho incautamente visitato per conoscere meglio questa particolarissima e bellissima tecnica costruttiva….. incautamente, perché la prima volta sono stato aggredito e derubato, ma da allora mi sono incaponito e ci sono ritornato con la dovuta cautela, da solo e con i miei studenti, studenti di una Scuola di Architettura generalista, come quella di Firenze, dove l’insegnamento dell’Architettura è stretto dal vincolo della modernità, dello sviluppo economico, della monumentalità, dell’uso di materiali altamente innovativi e costosi, e ponendosi solo marginalmente il problema della sostenibilità e della durabilità. Ma Galán è solo una delle migliaia di foto che potrebbero rappresentare l’Architettura della emarginazione e della disuguaglianza sociale, in tutte le parti del mondo.
Se per assurdo, guardando questa foto, ci chiedessimo  se ci sia traccia delle tre parole chiave di Vitruvio, ci renderemmo immediatamente conto che non è così e non è così per la natura stessa di questa architettura e di come è stata realizzata. Ma, secondo me, è pur sempre Architettura. Architettura di esclusi e per esclusi, architettura di emarginazione. Considerata dai benpensanti enclave di delinquenza e di violenza. E quindi da evitare, da ignorare. E qui viene il punto. Si delinque perché si vive male o si vive male perché si delinque?

E se la delinquenza è una scelta, questa scelta quanto è davvero una libera scelta e quanto è invece imposta dalle circostanze? In 25 anni di collaborazione no-profit, da tecnico, con i programmi di sviluppo umano delle Nazioni Unite (UNDP), dell’AICS del nostro MAECI, delle Regioni e di svariate ONG, in attività sviluppate in Albania, Libano, Marocco, Perù, Colombia, Guatemala, Nicaragua, Messico e Cuba, occupandomi di riabilitazione strutturale di centri storici e quartieri di emarginazione, ho capito quanto l’aspetto tecnico sia secondario e solo un volano per migliorare la qualità della vita di quelle persone, e il loro habitat. E per farli sentire meno esclusi.
Le parole chiave: partecipazione, scambio di saperi, lavorare insieme……. Gli archistars di oggi  si sono occupano di questo tema solo marginalmente, quasi come una addenda, inevitabile ma tardivo, alla loro fama. Quasi una inconscia volontà di espiazione di colpa (tra questi oggi mi sentirei di escludere Simón Vélez in Colombia, Peter Rich in South Africa e i compianti Fabrizio Carola e Hassan Fathy).

Qualche anno fa nella conferenza dì inaugurale di una delle edizioni del Congresso Internazionale, organizzato dalla Universidad Politécnica de Madrid, Joan MacDonald, cilena e past-president del Programma Habitat delle Nazioni Unite, segnalò davanti a una platea di architetti, sociologi, economisti, cooperanti, il peggioramento delle condizioni abitative degli emarginati (quelli cui usualmente ci si riferisce parlando di favelas) e arrivando a definire la nuova peggiore condizione abitativa con una espressione pesante ma realistica: architettura di tuguri. Invitò gli astanti a ribaltare completamente la visione del lavoro dell’architetto dando priorità ai programmi abitati dedicati agli ultimi.
Orbene, io penso che anche in questo modo si diminuisce progressivamente la forbice sociale e si combatte la più grande piaga della umanità: la disuguaglianza. La disuguaglianza, o meglio dire la esclusione dai processi decisionali e partecipati, crea fasce di società fragili e più esposti agli attacchi dei virus della globalizzazione del capitalismo, che ormai ha dimostrato il suo fallimento. Nelle Mete del Millennio stabilite dalle Nazioni Unite, il nostro lavoro di architetti è nascosto nella definizione di una delle ultime Mete (Millennium Goals), quella riferita al rispetto del’Ambiente. Ma anche l’Architettura può dare il suo contributo. Partendo dal basso, partendo dalle periferie (socialmente economicamente e architettonicamente intese), utilizzando anche tecniche dimenticate perché considerate apparentemente inutili o superate.


Gli esseri umani nascono liberi.
Se c’è libertà vera e unione vera c’è la forza per superare momenti difficili, che siano pandemie, uragani, terremoti, o quant’altro la nostra vita ci riservi.
Senza uguaglianza sociale non ci sarà mai vera libertà.