Viviamo sospesi in questi giorni, in attesa di non sappiamo bene cosa, iniziamo a capire che non sarà breve questa vita nuova.

C’è un paradosso evidente.

Da una parte la paura, la morte, la paura, un futuro incerto, la solitudine, il lavoro che non ha più la sicurezza di poche settimane prima e mille altre conseguenze di cui piano piano prendiamo coscienza.

Dall’altra parta la perversa sensazione che questa interruzione era inevitabile e forse anche necessaria. Un’incredibile situazione che mette in pausa, in poche settimane, un intero pianeta. Un mondo che correva e correva, senza il tempo di capire verso cosa e perché. Non è un caso che è proprio quella parte di mondo che andava più veloce ad essere la più colpita.

Ci siamo dentro tutti.

Questioni che ci sembravano fondamentali fino a pochi giorni fa, ora assumono la rilevanza di un filo d’erba in un prato. Al contrario gesti d’abitudine, come dare la mano ad un conoscente o abbracciare una persona cara, ora invece si rivelano tanto vitali quanto impossibili. Persone alle quali non degnavamo uno sguardo, passando in fretta dalla cassa di un supermercato, ora ricevono un grazie di cuore per il servizio che ci stanno offrendo. Avremmo voglia di invitare a cena per un intero mese il corriere che ci porta un pacco con il fondamentale accessorio informatico, senza il quale ci sentiremo ormai persi. Chiamiamo persone che non sentivamo più. Ci preoccupiamo anche degli altri.

Non siamo diventati più buoni ma la buona notizia è che non siamo ancora barbari. Non ancora. E qui c’è il bivio: non diventiamolo.

Tratteniamo il respiro (non sarà il caso che è proprio il respiro che contagia e si ammala) e cerchiamo non solo di uscirne ma di farlo bene. Quanto ci sta attorno, chi si prodiga per evitare il peggio, sta mostrando quasi ovunque il lato migliore del pianeta, a volte inaspettato. Chi si occuperà del dopo, noi tutti, dovremo fare altrettanto, anche solo per riconoscenza. Il filo sarà sottile tra un pericoloso fallimento generale e una possibile rinascita. Sia chiaro, sarà durissima: conteremo i morti, calcoleremo i danni, ci leccheremo le ferite, ma dovremo far pendere la bilancia verso il piatto giusto.

Altrimenti le barbarie.

E il nostro mestiere? Le nostre case? Le città? Vederle vuote, dal vivo o anche solo in immagini, fa un effetto strano. Sono molto più forti di noi, riescono in alcuni casi a essere più belle, ma se già lo sono; oppure drammaticamente brutte se svuotate delle persone che nascondevano la realtà. In un caso o nell’altro torneremo a viverle con occhi nuovi come, con occhi nuovi, vediamo ora i nostri spazi domestici, dentro i quali siamo costretti a vivere ininterrottamente nelle ultime settimane. Immaginiamo cosa vorremo cambiare e cosa ci manca. In questo periodo pensiamo molto anche a piccole, ma non futili, cose. Una finestra ben posizionata sul paesaggio; un balcone che non usavamo, il metallo invecchiato sul quale la mano appoggia e che riceve storie. Tutto ha un gusto diverso. E il nostro mestiere dovrà imparare dalle ferite e smettere di concentrarsi sull’estetica estemporanea.

I cambiamenti dovranno esserci e dovranno essere lenti perché se qualcosa avremo imparato da questo dramma è proprio la necessità della lentezza come guida al miglioramento.  Profondo.

L’augurio è questo: un cambiamento radicale dove saranno soprattutto le nuove generazioni, a cui il destino ha giustamente risparmiato qualcosa in questo periodo, a prendere coscienza dell’esperienza  e tradurla in qualcosa di bello.

Auguri, giovane mondo, inizia a guardare avanti.