Dalla rivista “Libertà”, 20 Maggio 2020 
Estratto dell’intervista di Pier Paolo Tassi a Sergio Buttiglieri 

Ci racconti. Cosa caratterizzava il design nautico prima e come è cambiato il panorama dopo le innovazioni che avete introdotto alla Sanlorenzo?

Devo dire la verità. Quando feci il colloquio di lavoro per la Sanlorenzo non conoscevo l’azienda, ma sapevo che il cantiere si trovava a pochi minuti da Tellaro, uno dei paesi di mare in cui avrei sempre sognato di vivere. Allora era un piccolo cantiere navale, passato dalle mani di Giovanni Jannetti a quelle di Massimo Perotti. L’idea era di conservare la grande tradizione di questa piccola boutique, rispettandone l’immagine. Perotti, senza tradire la sobrietà del marchio, organizzò una forza vendite internazionale, radunando un team di persone straordinarie nell’ufficio tecnico e in produzione. Ma quando arrivai, pur avendo carta bianca, rimasi sorpreso da come trovai sconnessa la qualità del design italiano e il mondo della nautica. Erano linguaggi che non si parlavano più con la conseguenza di involgarire il design nautico, caratterizzato da un’ossessione a riempire gli spazi, un horror vacui che l’architettura contemporanea aveva abbandonato da tempo. Eppure, troppi imprenditori nautici ancora ritenevano negativo coinvolgere le grandi firme del design italiano e quando proposi questa strategia fui osteggiato e attaccato nei convegni del settore. Ma il fatturato ha mostrato il contrario: arrivammo a superare la crisi di Lehman Brothers del 2008 che aveva mandato in fallimento tanti cantieri, mentre noi rimanemmo sul mercato senza mai mettere in cassa integrazione nessuno nemmeno per un giorno. (...)


Nelle sue interviste ricorrono i riferimenti al filosofo Roland Barthes. Cosa la lega al semiologo francese?

E’ certamente un mio punto di riferimento, specie per gli scritti che ha dedicato al mondo della nautica, utilizzando ancora una terminologia bellica e pensando a queste ville nel mare come a immaginifiche prigioni, ambienti vincolati e tenebrosi.
Gli yacht – scrive – “sono il luogo privilegiato di ogni clausura, una sorta di moderna arca dove si conservano le principali varietà della specie del sangue blu”. Ecco, la nostra sfida è stata quella di andare oltre a questo luogo comune, rendendo gli ambienti di queste ville galleggianti ariosi e openspace grazie soprattutto al contributo di Piero Lissoni, nostro Art Director, seguendo logiche minimali. Il comune denominatore è sempre il dialogo: si attinge al meglio della produzione di design italiana per mettere a punto arredi dai loro cataloghi, rendendoli nautici con piccoli accorgimenti come fissaggi e blocchi di sicurezza. Sfruttiamo questo patrimonio immenso che abbiamo in Italia e che gli imprenditori esteri ci invidiano. Per questo scelgono di spendere da noi, perché si rendono conto che abbiamo qualcosa in più. Tanto che nel 2011 il presidente della Repubblica vi ha insignito del Premio Innovazione Adi Design Index. Appena arrivai a Sanlorenzo, puntai sulla realizzazione della SL100 su disegno di Dordoni Architetti, che vinse poi il premio per l’innovazione nel 2011. Era una barca completamente diversa dalla tradizione e fu Perotti a darmi il via libera per il progetto nonostante il layout particolare e non in linea con gli altri modelli. Eppure un imprenditore austriaco appena la vide la comprò immediatamente proprio perché era diversa dal solito e molto più contemporanea. Da lì ne realizzammo delle altre, perché gli altri imprenditori del mercato nautico erano fuori dal tempo, avevano stereotipi antichi. Se arrivava un armatore russo, gli si proponevano subito i rubinetti in oro. Io invece proponevo arredi contemporanei e iconici come ad esempio lo scrittoio degli anni ‘30 di Marcel Breuer, e loro lo apprezzavano. Il segreto era di raccontare il design agli armatori per farglielo apprezzare. Portavo i potenziali clienti a Milano e in due tre giorni percorrevamo i luoghi del design, scegliendo i pezzi migliori nelle gallerie - anche quelle vintage - e finanche opere d’arte specifiche per le barche. E se rimaneva tempo magari li portavo alla Scala, o all’Hangar Bicocca.

Iniziò a lavorare mentre era studente di Lettere, con indirizzo in Storia dell’Arte. Ma alla fine, quella laurea in Lettere l’ha conseguita?

Sono figlio di una famiglia di umili origini che alla laurea teneva molto.
Ma ai tempi preferii trovare prima di tutto un modo per mantenermi e iniziai a lavorare per un grande architetto di Parma, maestro nei restauri museali, Guido Canali. Pur amando in maniera viscerale le lezioni sul Romanico medio padano di uno dei più autorevoli storici dell’arte, Carlo Arturo Quintavalle, decisi di rendermi completamente autonomo e andai a lavorare per Driade.
Sono rimasto però un lettore vorace di quotidiani e libri. Fin da adolescente approvavo il pensiero del filosofo Ivan Illich. Nel suo mitico testo “Descolarizzare la società” lui sosteneva che l’istituzione scolastica del nostro tempo purtroppo spesso non è il luogo unico e ideale per la vera trasmissione delle conoscenze.
Oggi quando faccio conferenze nelle università agli studenti di architettura, dico sempre che bisogna avere il fuoco della conoscenza dentro, essere affamati di cultura ed essere eclettici. Serve una fame immensa di cultura che non si fermi al programma dei loro corsi.
A Fiorenzuola mi ricordano ancora come assiduo frequentatore di biblioteche e ora che con mia moglie vivo a Forte dei Marmi, spero di non dovermi più trasferire perché avrei troppi libri da spostare.